La “vera” triste storia (semiseria) di Mikez e Jakez

>> domenica 30 novembre 2008


Storia in parte oscura e sicuramente travagliata quella di Mikez e Jakez1 che però ha fatto la fortuna della Gondrand. Nella sede di Trieste dell'azienda leader dei traslochi campeggia ancora una targa commemorativa.



Le prime notizie delle due statue risalgono al 1517.



Piazza Unità d'Italia a quei tempi si chiamava Piazza San Pietro, ma comunemente veniva chiamata Piazza Grande perché ai triestini, si sa, le cose semplici non piacciono.



La piazza non era ancora stata interrata ed occupava un terzo circa delle dimensioni attuali, era circondata da edifici che la isolavano anche dal mare. Le facciate delle costruzioni guardavano infatti all'interno dello slargo. Fra di esse, nel gruppo di quelle che davano le spalle al mare, c'era anche la Torre dell'Orologio, chiamata anche Torre del Porto, oppure ancora Torre del Mandracchio, sempre perché ai triestini le cose semplici non piacciono, che in pratica era la porta della piazza che dava sull'antico porto della città, detto appunto Mandracchio (piccola darsena), stretta fra le prigioni e la Locanda Grande.



Nel 1474 la Torre del Mandracchio venne modificata per la prima volta e nel 1517 l'antica porta venne abbellita con un orologio e con due personaggi in bronzo che scandivano le ore e che il popolo allora battezzò Mikez e Jakez ovvero Michele e Giacomo. Poiché erano di bronzo, le due statue si ossidarono in fretta ed assunsero una colorazione brunita o rossiccia, tanto che i triestini presero a chiamarli i mori di Piazza. Qualcuno però dice che il motivo del cambio di colorazione abbia avuto altre cause. Si racconta che un tal Jure, che era solito ciondolare in Piazza nelle prime ore del mattino, giurava e spergiurava di averli visti incazzati neri che discutevano tra loro e borbottavano: "Ma vara ti se in una cità con un mar cusì bel, i ne doveva meter giradi de spale!"



Nel 1700 i Mori vennero smontati ed al loro posto fu costruita una trifora con tre campane, mantenendo però intatto il movimento degli automi. Si ignora che fine fecero Mikez e Jakez, forse finirono in un deposito, forse finirono in mare, forse ancora furono fusi per ottenerne le stesse campane o altro.



Nel 1838 fu deciso l'abbattimento della Torre dell'Orologio, ma un'anima nostalgica volle recuperarne, chissà perché, il meccanismo.



L'incarico fu affidato all'orologiaio Antonio Sebastianutti che provvide a smontare il congegno dalla torre ed a rimontarlo sull'edificio della Loggia, che si trovava dal lato opposto della piazza, pressappoco nel luogo dove oggi sorge il Palazzo Municipale. Molti triestini scuotevano la testa in un chiaro segno di approvazione.



Nel 1875 l'architetto triestino Giuseppe Bruni vinse la gara per la progettazione di un nuovo palazzo che avrebbe dovuto chiudere la piazza dal lato della città vecchia. Il nuovo edificio, il palazzo del Municipio, doveva essere formato da un unico corpo monumentale sovrastato, nella parte centrale, da un torrione con orologio.



Qualcuno però si ricordò delle due statue che quasi 3 secoli prima adornavano la Torre dell'Orologio (alias Torre del Porto, alias Torre del Mandracchio, sempre perché ai triestini le cose semplici non piacciono) e convinse il Bruni di come sarebbe stato bello e nostalgico riavere i due cosiddetti Mori.



Il problema era che nessun triestino, per quanto longevo, aveva mai visto dal vivo le due statue: si sapeva solo che erano due Mori e che erano soprannominati Mikez e Jakez. Un po' poco anche per il Bruni.



Notti e notti a studiare soluzioni, a creare e distruggere stampi. Alla fine decise che due paggi tirolesi sarebbero andati benissimo e avrebbero sicuramente fatto felice la casa asburgica.



I due paggi furono modellati in zinco nel 1875 dallo scultore Fausto Asteo da Ceneda dell'Accademia di Belle Arti di Venezia. Per il trasporto da Venezia a Trieste2 venne incaricata la neonata casa di spedizioni Gondrand che utilizzò il suo carro ultimo modello trainato da una coppia di cavalli da tiro chiamati Bepìn e Giuanìn.



Il viaggio durò settimane, ma alla fine i due cavalli arrivarono stremati con il loro carico nella piazza che, dal 1918, dopo un breve periodo nel quale era stata denominata Piazza Francesco Giuseppe, aveva assunto il nome di Piazza Unità in onore dell'avvenuta annessione di Trieste all'Italia, ma che comunemente veniva chiamata ancora Piazza San Pietro o Piazza Grande perché ai triestini, si sa, ecc., ecc.



I due paggi furono installati tra il 5 ed il 7 di gennaio del 1876 e batterono i primi dodici rintocchi a mezzogiorno del 14 gennaio davanti ad una folla festante che scuoteva la testa in segno di approvazione. Le due statue furono battezzate dai Triestini con un guizzo di fulgida fantasia, Mikez e Jakez.



Ma Fausto Asteo da Ceneda che era un entusiasta (ed un rompipalle di prima categoria), pensò che se due statue andavano bene, quattro sarebbero andate ancora meglio e quindi, con del bronzo che gli era avanzato nella fucina, modellò due tedofore per abbellire la neonata piazza triestina.



A Bepìn e Giuanìn, che non si erano ancora ripresi dal viaggio, quando giunsero alle orecchie le voci che ci sarebbero state da portare anche altre due statue, si rizzarono le criniere dallo sgomento e sulla strada verso Venezia, dopo aver nitrito tre volte sotto la galleria naturale, decisero di comune accordo di incrociare gli zoccoli. Si rifugiarono in un Frasco a bere clinto e passarono i loro giorni seduti in un patio a mangiare tartine di carrube e a parlare di puledre, fieno e grassi pascoli.



La Gondrand non si perse d'animo e al posto dei due cavalli rinnegati utilizzò il meglio della loro equinorimessa, Bepòn e Giuanòn (vulgo Deborah per gli amici più intimi), una coppia di enormi cavalli belgi, il primo taciturno e ombroso, dal passo lento e potente, il secondo linguacciuto e garrulo, dall'andatura ondeggiante e sbarazzina.



Quando i cavalli giunsero inaspettati in Piazza San Pietro o Piazza Grande che dir si voglia, i triestini rimasero di sasso ed ancor più l'architetto Bruni al quale girarono i cateti ad elica: posto sul nuovo Palazzo de Municipio non ce n'era, creare altre nicchie era impensabile, il palazzo era bello così.



Anche i triestini erano perfettamente d'accordo, la bellezza del palazzo non era in discussione, tanto che lo soprannominarono affettuosamente la Cheba (per la struttura a forma di gabbia) o Palazzo Sipario in quanto nascondeva la Cittavecchia e, ancora più entusiasticamente, Budel de Lionfante, Castel de Mandorlato o Crocante.



Dove mettere le due statue, allora? Beh, nella piazza, di fianco all'entrata del nuovo amatissimo Palazzo. E come chiamarle? Inizialmente i triestini pensarono a qualcosa di insolito, tipo Mikeza e Jakeza, ad esempio, ma un forestiero che passava di lì per caso suggerì che forse era meglio un nome più tradizionale come Tinza e Marianza. Dalla piazza si levò un urlo: "NO SE POL!". E Infatti, da quel momento, le due tedofore si chiamarono Tinza e Marianza3.



I triestini stabilirono che le due tedofore dovessero essere le mogli dei due paggi che sovrastavano il Palazzo del Municipio e fecero festa per tutto il giorno non accorgendosi delle gocce di zinco che scendevano dagli occhi di Mikez e Jakez.



L'amore per la nuova piazza venne immortalata in una canzone popolare che faceva più o meno così:





Xe storto el palazo,
xe bruta la tore
e Mikez e Jakez
che bati le ore,

e Tinza e Marianza
le sta sul porton
a veder le siore
che vien dal liston.
4


(Xe storto el Palazo! - Popolare)




Bepòn osservava la scena con occhio perplesso mentre Giuanòn era totalmente assorto a rifarsi il trucco.



Tinza e Marianza furono poste su un piedistallo di pietra ai lati del Palazzo del Municipio per illuminarne l'entrata principale. Le braccia sollevate, reggevano nella mano una lanterna di metallo e vetro opaco alimentata a petrolio, successivamente sostituita da una boccia di vetro opalino, quando l'alimentazione passò a gas. Tinza e Marianza se ne stavano immobili davanti a quel portone a chiacchierare tutto il giorno tra di loro e a Jakez questo non andava proprio giù: "Ma vara quela striga! Tuto el giorno che la ciacola e la se remena. Ma a mi no la me ga gnanca pel cul! Cossa la pensa? De gaver trovà el mona de turno? Ma la meto a posto mi!"



Tinza e Marianza fecero bella mostra di sé ai lati dell'ingresso del Palazzo del Municipio fino al 1936 quando furono rimosse. Marianza qualche anno prima era stata irreparabilmente danneggiata dalla manovra avventata di un militare tedesco che la urtò facendo retromarcia con un camion. Nessuno vide nottetempo lo stesso militare che si arrampicava sulla torre dell'orologio a ricevere dalle mani di un euforico Jakez un fascio di Reichsmark5.



Si ignora che fine abbiano poi fatto le due statue. Le versioni sono innumerevoli. Qualcuno dice che entrambe le statue giacciano dimenticate nel fondo di uno dei tanti magazzini del Comune di Trieste, altri dicono che quella danneggiata venne fusa per ottenere metallo per la Patria ed una posta nel giardino di un Gerarca fascista dell'epoca, fatto sta che nessuno sa se esistano ancora e dove siano finite.



Mikez e Jakez osservavano dall'alto tutto questo via vai di statue sistemate e rimosse, di fontane smontate per far posto ad un palco e alle folle oceaniche, di monumenti girati ora di qua e ora di là a seconda dell'estro del momento, poi quando non ne potevano più alzavano gli occhi e vedevano il mare, si perdevano in quell'universo blu e si dicevano: "meno mal che ghe xe el mar, che el xe mato quel che servi".





Il tempo passava e chi meglio di loro poteva rendersi conto del passare del tempo, scandendo le ore tutti i giorni che Dio metteva in terra?

Il contratto degli automi da orologio non prevede una data precisa per il pensionamento, ma dopo quasi un secolo di onorato servizio, lo zinco delle spalle un po' indolenzito dopo tutti quei colpi a suon di mazza sulla campana, sapevano e speravano che da lì a poco avrebbero potuto posare le mazze e godersi il meritato riposo, magari su quel campanile, magari su due sdraio di ghisa, magari davanti a quel mare e a quel cielo terso, frustati dalla bora e accarezzati dalla brezza marina. Ma avevano fatto i conti senza l'oste.



Nel 1972 i tubi di un'impalcatura cominciarono ad arrampicarsi sul Palazzo del Municipio e sali e sali e sali arrivarono all'altezza dei due paggi che osservavano curiosi, ma quando in Piazza entrò un camion della Gondrand incominciarono seriamente a preoccuparsi. Due operai parlavano tra loro e dicevano: "I li porta via per farli novi".



"Ciò, un lifting! Iera ora!" disse Mikez strizzando l'occhio a Jakez.



Non sapevano gli sventurati che nei palazzi del Comune si era decisa la loro clonazione! Una nuova campana e una nuova coppia di paggi, identica agli originali, erano appena stati fusi in bronzo dalle fonderie Cavadini e Brustolin di Verona. Nel mese di ottobre dello stesso anno vennero montati sul Palazzo del Municipio ed il 3 novembre i due automi batterono per la prima volta le ore in una Piazza dell'Unità d'Italia gremita all'inverosimile. Che felicità, c'era da dare nuovamente un nome a due statue!



Questa volta non si volle lasciar nulla al caso e, per la scelta del nome, si autoconvocò al Caffè degli Specchi il gotha dell'Intelligentia triestina, professori, dottori, letterati, scienziati, luminari illuminati, lampadari allampanati, farmacisti, futuri futuristi, frittimisti, poeti, navigatori e santi.



Ore di discussione, più di mille nomi proposti, valutati e scartati, litigi, minacce, insulti, contumelie e sputi, poi, verso il far della sera, si aprirono le porte del Caffè, uscì una nuvola di fumo e di neuroni e, dentro la nuvola, un omino curvo e rinsecchito che qualcuno riconobbe come il Preside Emerito della Facoltà di Scienze delle Innovazioni e delle Originalità Clamorose dell'Università di Trieste.



Fu aiutato a salire su un tavolino e si rivolse alla piazza in muta e trepidante attesa della storica decisione. "Dopo attento esame della materia, vagliati i pro e i contro ed i possibili scenari, valutate tutte le obiezioni sollevate, gli indizi e gli alibi, gli appelli e i contrappelli, spulciando, analizzando, setacciando e misurando, dopo ore di attento e scrupoloso studio del passato, del presente e del futuro, senza nessuna concessione alle mode del tempo e delle stagioni, né nostalgie dell'arcaico o velleità di venturo, né stereotipi o archetipi, né prassi, pratiche, tradizioni, né valori etici o politici o storici o ipotetici, pesato il detto e il fatto, stimato il sopra e il sotto, sviscerato il qui, disaminato il quo ed approvato il qua, Noi, Illustrissimi e Insigni Talenti di tutte le Arti, Scienze e Professioni abbiamo stabilito che le nuove statue che da oggi ornano l'amatissimo Palazzo del Municipio debbano essere menzionate con i nomi di Mikez e Jakez".



Un boato si alzò dalla Piazza stracolma, guanti e sciarpe, cappelli e bambini, animali domestici e selvatici furono lanciati in aria in segno di giubilo.



Mikez e Jakez, quelli veri, attendevano pazienti il loro turno nella sala d'aspetto della clinica estetica (che assomigliava molto ad un magazzino comunale). Vi rimasero fino al 2005 quando furono esposti brevemente allo sguardo dei triestini prima di essere trasportati ad Udine, per il loro restauro assieme alla vecchia campana. Dal 2006 vivono al piano terra del Castello di San Giusto, vista portone d'ingresso.



Chi passasse di lì alla sera sentirebbe dei borbottii provenire da dietro i centenari portali: "Ciapa qua! Chi va losto perdi el posto! I siori sul listòn, noi a smonarse in un portòn".







1. I nomi sono stati tramandati oralmente e si ritrovano a volte come Micheze e Jacheze, altre volte come Mikez e Jakez, altre ancora come Mikeze e Jakeze.


2. Non è certo dove siano stati modellati Mikez e Jakez. Alcune fonti dicono a Venezia, nella fonderia Barotin, altre ad Udine.


3. Tinza e Polonza secondo altre fonti.


4. Con variante "a veder i greghi de via Malcanton" o ancora "a veder i cici che vendi carbon".


5. Altre fonti imputano ad una vettura da piazza la manovra impruduente che danneggiò una delle due tedofore.





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Il caffé San Marco

>> sabato 29 novembre 2008

Il novecento nascosto




Se non sei di Trieste e ci passi davanti non ci fai neppure caso, tanto è anonimo. Potrebbe sembrare un magazzino o una vecchia bottega artigiana come ce ne sono tante negli angoli dispersi delle città. Vecchie porte in legno a vetri con delle mezze tendine, tendoni una volta rossi, ma sbiaditi dalla luce. Anche l’insegna non ti aiuta, posta com’è sull’angolo del palazzo, di quelle insegne al neon tanto anni sessanta, visibilissime di notte, ma pressoché indistinte di giorno. Ma appena ne varchi la soglia è come se accendessi un lume a petrolio e venissi scaraventato indietro nel tempo. Atmosfera soffusa, tavolini di marmo e ghisa, legni scuri ovunque, specchi, stucchi, seggiole di quelle di una volta dalla seduta segnata, drappi e ottoni. Viene quasi il gesto istintivo di tirar fuori l’orologio dal taschino per controllare l’ora.



E’ il Caffé San Marco al n. 18 di Corsia Stadion, oggi via Battisti, locale storico tra i più affascinanti di Trieste.



E’ il 3 gennaio del 1914 quando, al pianterreno di un edificio di proprietà delle Assicurazioni Generali, edificato due anni prima, Marco Lovrinovich, già direttore della trattoria di Roiano “Ai dodici Moreri“ , inaugura il Caffé San Marco.



Istriano di sentimenti italiani, Lovrinovich , era profondamente legato a Venezia e questo legame si arguisce dall’effige del Leone di San Marco che si trova un po’ ovunque: sui lampadari, sulle suppellettili, sui mobili, nelle zampe delle sedie. Tutti chiari riferimenti all’italianità. Non a caso, la direzione dei lavori fu affidata a Napoleone Cozzi (1867-1916), pittore, scrittore, alpinista, ma soprattutto irredentista convinto e le decorazioni sui soffitti, le foglie di caffé e i fiori, e sulle pareti sono attribuite a vari artisti relativamente celebri, come il pittore secessionista Vito Timmel (1886-1949), anch'egli assiduo frequentatore del caffé. Le decorazioni dei medaglioni alle pareti sono nudi maschili (metafore dei fiumi friulani) opera pare del Cozzi e di Ugo Flumiani (1876-1938).



Travagliatissima la sua storia sin dagli esordi, osteggiato dal Consorzio Triestino tra Caffettieri, che, pur di bloccare Lovrinovich1 si era rivolto, invano, all'autorità asburgica locale. Qualche problema lo ebbe anche per via del nome con quel richiamo diretto a Venezia e all’Italia e il Lovrinovich dovette spiegare con arguzia al sospettoso consigliere della Luogotenenza: "Sior, la sa ben che me ciamo Marco, e me par ben intitolar el mio caffè al nome del mio Santo".




Il San Marco, sorto là dove un tempo c'era la Latteria Centrale Trifolium, una latteria con tanto di stalla per le mucche, divenne subito ritrovo di giovani studenti e intellettuali.



Tra i primi a frequentare il locale furono gli scrittori Silvio Enea Benco (1874–1949), Scipio Slataper (1888–1915), Giani Stuparich (1891-1961).



Forse per la posizione leggermente defilata dal centro vitale di Trieste, il Caffé San Marco divenne ben presto luogo di incontro dei giovani irredentisti triestini i cui padri si trovavano invece da parte loro erano soliti riunirsi al Caffé Tommaseo.



L’ irredentismo, per chi ama la storia come il trapano del dentista, era un vasto movimento d'opinione sorto in Italia a causa degli esiti della terza guerra d'indipendenza (1866) che aveva lasciato sotto il controllo dell'Austria il Trentino, il Friuli e la Venezia Giulia. Gli irredentisti, favorevoli a creare le condizioni politiche e militari per il ricongiungimento di queste terre all’Italia, incarnavano quel senso comune popolare di ostilità agli Imperi centrali e sostenitore del completamento dell’Unità nazionale. Convivevano in queste Terre due anime, quella filo-austriaca e quella irredentista con lotte spesso molto aspre.



I giovani irredentisti triestini fecero del Caffé San Marco un centro di discussione, di organizzazione e di azione e in quella sala si preparavano anche i passaporti falsi per permettere la fuga in Italia di patrioti antiaustriaci.



Il pomeriggio del 23 maggio 1915 venne data la notizia della dichiarazione di guerra da parte dell’Italia all’Austria-Ungheria.



“Entravano, facevano bottino delle paste, dei liquori e delle argenterie. Poi mandavano in frantumi tavoli e specchi. Infine mettevano in azione il petrolio, la benzina e le vampe". Così un cronista dell’epoca ricorda  la furia distruttrice che i gruppi anti-italiani scatenarono contro numerosi caffé, tradizionali ritrovi degli irredentisti, quel pomeriggio del 23 maggio 1915 a Trieste.



"Arsero completamente il caffé Fabris ed il caffé Portici di Chiozza: in quest’ultimo la distruzione fu così integrale che all’indomani, nell’atrio carbonizzato, non si trovò che il contorto scheletro di ferro di qualche seggiola. Devastazioni gravissime subirono anche il caffé Milano, il caffé San Marco, il caffé Edison. Il proprietario del caffé Stella Polare dovette difendere da sé il suo esercizio accerchiato da una masnada avida di rapina".






Dopo meno di 17 mesi dall’inaugurazione, il Caffé San Marco, già fatto a pezzi dalla furia anti-italiana, venne sigillato e chiuso dall’esercito austro-ungarico.



Lo stesso Lovrinovich, in seguito, venne incarcerato a Liebenau, in Austria, perché si era causato volontariamente il tracoma2 con una soluzione batterica, allo scopo di non andare a servire nell'esercito austro-ungarico nella guerra contro l’Italia.



Da quel momento del Lovrinovich si persero le tracce e infatti il Caffé San Marco non riaprì neppure al termine del conflitto. Dalla fine della Prima Guerra Mondiale fino al termine della Seconda, il Caffé San Marco, come il palazzo che lo ospitava, giacque in uno stato di completo disinteresse.






Agli inizi degli anni cinquanta, le Assicurazioni Generali, proprietarie dell’edificio, cominciarono una serie di restauri sia sulla facciata che sugli interni del palazzo.



Il Caffè San Marco riaprì in sordina, nei primi anni del secondo dopoguerra ospitò per un certo periodo la Società Scacchistica Triestina, con quella particolare disposizione dei tavoli assolutamente perfetta per gli amanti di questo gioco.


Nel 1962 vi furono girate alcune scene del film “Senilità” tratto dall’omonimo romanzo di Italo Svevo con la regia di Mauro Bolognini, protagonisti, tra gli altri Claudia Cardinale, Philippe Leroy e Anthony Franciosa.



Negli anni che seguirono, per via di alcune gestioni fallimentari, rischiò di scomparire più di una volta. Lo salvarono prima una cordata di artisti ed intellettuali che avevano formato una cooperativa e poi l' intervento di Marchino Zanetti, produttore del caffè Hausbrandt.





L’ultima riapertura avvenne il 16 giugno 1997 e l’attività prosegue tuttora con l'immutato e suggestivo aspetto di sempre.



Gli schiamazzi non entrano al Caffe San Marco, nonostante i tavolini affollati e le animate discussioni. Questo rifugio liberty, caldo, protettivo oggi è frequentato da chi cerca un posto dove estraniarsi, leggere un libro, pensare, conversare pacatamente, ma anche da studenti che in quella atmosfera silenziosa riescono a cogliere la giusta concentrazione.



E tra i normali avventori di oggi si possono incontrare anche Stelio Vinci che al Caffè San Marco ha dedicato un intero volume “Al Caffè San Marco, Storia Arte e Lettere di un caffè triestino” (Edizioni Lint, Trieste - 1995), ma soprattutto Claudio Magris che gli ha dedicato un capitolo in “Microcosmi” (Edizioni Garzanti – 1997), vincitore del Premio Strega.



Sfilato l’orologio dal taschino ci si accorge che si è fatto tardi, occorre andare.



Un consiglio. Attraversata la soglia, riabituatevi un attimo alla luce ed al frastuono. E prima di attraversare la strada ricordatevi che oggi i padroni della città sono i veicoli e non i pedoni.



Un’ultima occhiata al cronografo da polso multifunzione e bentornati nel 2008.









1. Marco Lovrinivich per altre fonti.


2. Il tracoma è una infezione batterica della congiuntiva e della cornea dal decorso molto doloroso che, se non curata, porta alla completa cecità.















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